
Vitaliano Corbi
Muro di Venezia, 1989. Il dipinto inquadra, in primo piano, un particolare di un vecchio palazzo veneziano: il marmo bianco dello spigolo, il rosso dei laterizi impallidito e corroso, le macchie che svariano dai grigi agli azzurri tenui, l'acqua della laguna sullo zoccolo scuro dell'edificio. Il semplice incontro ad angolo retto delle due facce del palazzo costituisce, col suo potente effetto volumetrico, l'intera struttura spaziale dell'immagine. Ma lo sguardo, attratto dalla frastagliata geografia che il tempo e l'umidità vi hanno disegnato, rimane catturato nel seducente, arioso arabesco di forme e di colori. Arabesco, 1990. Gioioso nella sua leggerezza senza corpo, l'arabesco corre sospinto da una carica d'energia irrefrenabile. Il segno non cerca più l'illusione della profondità. Muta, invece, continuamente direzione, inventando percorsi labirintici sulla superficie del quadro. I colori dell'arabesco sono ancora quelli di Venezia, ma liberati dal peso delle cose e invasi da una intensa luminosità. Lo sgurdo ha mollato gli ormeggi che lo legavano alla terra. Ora naviga nel mare della fantasia, tracciando da sé la rotta da seguire, in un avventuroso e bizzarro andirivieni che non conosce l'ansia di approdi prestabiliti.
Anche per Saverio Orlando, come per molti artisti, il dato di partenza è spesso fornito dal mondo fenomenico: un particolare, un frammento della realtà - il muro di Venezia - attinto per mezzo dell'osservazione diretta o ricorrendo alla mediazione di altre immagini. Ci sono opere realizzate negli anni del liceo artistico e dell'Accademia in cui il giovanissimo pittore, pur dando prova di una notevole capacità di rileggere il dato figurale prelevato dalla realtà attraverso i diversi filtri che la cultura artistica mette a disposizione, mostra di volersi attenere alla regola tradizionale secondo la quale il dato di partenza non deve risultare sostanzialmente alterato dal processo di elaborazione pittorica. Il Muro di Venezia rappresentava, per certi aspetti, il momento estremo di questa prima fase della ricerca di Orlando, quello in cui l'immagine, non essendo ancora segnata da un scarto apprezzabile rispetto alla percezione della realtà, si presentava come un sostituto credibile di questa.
Che cosa è, dunque, accaduto con Arabesco? Il giovane artista ha rivissuto un'esperienza che è certamente al centro di tutta la vicenda artistica del Novecento, ma che attraversa, credo, l'intera storia dell'arte occidentale. E' l'esperienza che ci ha fatto comprendere, oggi, come quello scarto tra percezione del reale e immagine artistica sia per quest'ultima una condizione indispensabile al suo costituirsi. Muro di Venezia e Arabesco, nella loro successione, rendono evidente questo processo ed il modo specifico in cui esso si compie nella pittura di Orlando. La percezione, ritagliata dal contesto di provenienza, richiama l'attenzione su di sé, sul suo aspetto fenomenico, ma nello stesso tempo accresce notevolmente il suo grado di ambiguità e tende a configurarsi come un campo fluido, estremamente malleabile. Chi non ricorda le parole di Leonardo sulle macchie dei muri o, per fare altri esempi significativi proprio per la loro diversità, il dialogo tra Amleto e Polonio sulle nuvole nel cielo e i test di Rorschach? Si tratta del fenomeno psicologico, ben noto, della proiezione, col quale noi interpretiamo le macchie o le nuvole proiettandovi, appunto, i nostri fantasmi interiori.
Un processo del genere è sicuramente alla base della formulazione delle immagini di un gruppo di tele dipinte da Orlando nel 1990, comprendente tra le altre, Ricerca 1 e Ricerca 2, due quadri strettamente collegati ad Arabesco, ma, rispetto alla luminosa eleganza di questo, carichi d'una bellezza turbata dal contrastato e talvolta livido lampeggiare dei colori e dai tracciati lineari che accennano ad organizzarsi in bizzarre e involute forme organiche. Ancora una volta è il confronto con il quadro del 1989, che non a caso abbiamo posto ad apertura di questo scritto, a darci l'idea di che cosa possa essere accaduto. Orlando non ha chiuso gli occhi di fronte allo spettacolo della vita. Non si è ritirato nella solitudine del proprio animo. La pittura per lui, come per tanti artisti, ha continuato ad essere l'unica finestra aperta sul mondo. Ma egli vi ha visto trascorrere ombre e riverberi inspiegabili, indizi di presenze che non sembravano provenire dalla realtà. Da queste visioni egli non ha distolto, impaurito, lo sguardo, come quasi tutti facciamo, ma ha cercato di inseguirle e di catturarle. La "ricerca", cui si riferiscono i titoli, sta tutta in questo avventuroso tentativo di imprigionare nel corpo della pittura l'apparizione di qualcosa che non appartiene al mondo di fuori, ma che proiettandosi sullo scenario di questo può riattivare un circuito di pensieri e di fantasie forse rischioso, ma certo più ampio e libero. Un circuito che la logica classificatoria del senso comune spesso interrompe o paralizza.
C'è un gruppo di dipinti del 1993/94 dove, in una spazialità destrutturata, ai ritmi astratti dell'arabesco sono subentrate forme riconoscibili: figure di uomini, animali, piante, organismi viventi. Ma, sebbene i titoli accolgano un preciso riferimento alla realtà (Pilota, Gallo, Albero ecc.), ci accorgiamo subito che la velocità, o chi sa che altro, sta producendo mostruose mutazioni genetiche nell'organismo del pilota, dipinto con un cromatismo cangiante e con impasti d'una materia morbida, filamentosa, che espandendosi nello spazio circostante conserva ben poco delle qualità proprie dei corpi umani, fatti di carne ed ossa. L'impressione è di trovarsi in un campo magmatico, sconvolto da inquietanti processi metamorfici. Né più tranquillizzante è, nel secondo dipinto, l'aspetto del gallo. L'esplosione di luce da cui è stato investito lo ha privato dello spessore del corpo e lo ha ridotto allo stato di una impronta sbiancata, di una traccia sul punto di trapassare, come ogni altro elemento figurale presente nel quadro, in un assottigliato motivo lineare, in puro e semplice "arabesco". Il quadro con l'albero ha, invece, la varietà dei colori della vita. Spiccano soprattutto i rossi accesi e l'azzurro intenso del cielo, i bruni della terra e la vivace notazione verde del prato. Ma proprio l'albero, che occupa con la sua grande mole la parte centrale della composizione, contiene un allarmato messaggio di morte. Nelle rughe del tronco e nella chioma si nascondono occhi che ci guardano e incerte figure umane. Ombre, forse, di storie e di affetti realmente vissuti o solo immaginati, ma ora sigillati entro la forma del teschio cui l'albero stranamente somiglia.
L'eccezionale densità, anche iconografica, di queste opere autorizza a supporre che il processo di proiezione non sia rimasto al livello delle associazioni mentali consce, ma abbia incrociato quel particolare tipo di regressione controllata che alcuni studiosi, partendo dalla spiegazione freudiana del motto di spirito, hanno posto alla base della creatività artistica. I dipinti di Orlando sembrano offrire una conferma a questa ipotesi. Essi, infatti, recano i segni di quell'alterno percorso dall'io all'es, o, per usare un'espressione pressappoco equivalente, dalla luce della coscienza all'oscura profondità dell'inconscio.
Se Muro a Venezia, quando non se ne colga l'allucinata evidenza fantasmatica, può ancora far credere che le opere di Orlando intendano far specchio alle cose del mondo, già quelle immediatamente successive, su cui ci siamo prima soffermati, possiedono una stravolta forza espressiva legata al carico di emozioni che il giovane artista è riuscito a riportare dal suo viaggio nel regno dell'es, dove lo scontro tra le pulsioni di vita e di morte tocca le radici della nostra esistenza.
Davanti ai quadri dipinti da Orlando dalla metà degli anni Novanta in poi è quasi inevitabile pensare a quella abusata ma tutto sommato sempre efficace metafora che paragona il lavoro dell'artista alla corsa del delfino, con il suo andamento alterno di immersioni e di risalite sulla superficie del mare. A questo proposito è essenziale soffermarsi sull'importanza del momento dell'elaborazione pittorica dell'immagine, in quanto esso richiede all'artista la mobilitazione della sua capacità di controllare ed insieme proteggere la spontaneità del processo creativo. Ernst Kris, cui si devono alcuni fondamentali studi psicanalitici sull'arte, ha sottolineato come ad una fase in cui l'energia psichica sembra ritirarsi dall'io nel tentativo di facilitare l'emergere delle pulsioni dell'es, corrisponde un'altra in cui, prevalendo la necessità di concentrarsi sull'elaborazione dell'opera, sulla sua messa a punto tecnico-formale, si richiedono un vigile intervento dell'io e una coerente capacità operativa.
Nelle opere di cui ora ci stiamo occupando la normalità degli schemi figurali risulta aggredita da violentissime alterazioni. Spesso il corpo di uomo o di un animale, scomposto e frantumato in una moltitudine di forme organiche di difficile identificazione, assume l'aspetto di un insieme di pliche, di anse, di circonvoluzioni e di visceri, di ovoidi, di sacche, di peduncoli e di appendici tubolari. Un assaggio di questo repertorio di incredibile anatomia subumana viene fornito da Occhio che cammina del 1995, una perturbante raccolta di reperti di macelleria o di laboratorio biogenetico esibita con una gioiosa esultanza timbrica dei colori, che si ammorbidisce, invece, in passaggi più chiaroscurati in Metamorfosi, un volto arcimboldesco, realizzato con un assemblaggio di "pezzi" organici da capogiro, in Biscione e Araba Fenice, tutti e tre del 1996. Altre volte la frantumazione dei corpi è accompagnata da una sorta di pietrificazione. E allora può accadere che una creatura già strana di per sé - il quadro, del 1997, s'intitola infatti Alieno - somigli ad uno spettrale paesaggio di lividi sassi o che una donna - quella di Figura 2 del 2000 - si trasformi in una immobile scultura di pietre.
Questi processi di organismi proliferanti, di forme invaginate, di metamorfosi e di sostituzioni oggettuali sono sintomi della profondità di quella che, rifacendoci ad un'ipotesi di Freud, abbiamo chiamato regressione controllata. Si spiega così l'eccezionale intensità con cui le pulsioni dell'es affiorano alla superficie dell'io e s'impongono come temi centrali nella pittura di Orlando. Dipende da ciò anche quel tratto di visione allucinata, di sogno ad occhi aperti, che hanno spesso i dipinti di quest'artista. Ma attraverso i sogni ad occhi aperti - è ancora Ernst Kris a suggerirlo - si può imparare a dominare i propri fantasmi interiori e ad esorcizzare la paura che li accompagna. L'arte può essere un mezzo privilegiato per esercitare questo controllo e capovolgere l'angoscia nel piacere della manipolazione pittorica, riuscendo a far prevalere sui contenuti della rappresentazione il valore estetico della forma.
La pittura di Orlando è iscritta sul versante dell'arte visionaria, popolato dalle creature di Goya e di Van Gogh, di Füssli, Odilon Redon e dei surrealisti. Ma contrariamente a quel che molti pensano non è questo il regno dove dominano le angosce esistenziali e le premonizioni apocalittiche. Qui trascorrono anche voci d'amore e sogni di felicità, e il brivido del nulla si confonde con il fremito di ciò che viene alla luce. Non è una questione di contenuti. Non si tratta cioè di separare in un'opera i temi della vita da quelli della morte. Stiamo parlando, invece, di quel che i retori chiamano enfaticamente "il miracolo dell'arte" e che è, in realtà, un tema di riflessione largamente ricorrente nelle pagine sull'arte. Il potere di seduzione di questa è simile al canto delle sirene. Deriva cioè dalla qualità del canto, dalla viva intensità della sua dolcezza, che coinvolge in sé anche il senso di quel che racconta. Leopardi diceva con apparente semplicità che la poesia, richiamandoci alla sua bellezza, "ci accresce di vitalità". Altri, nel corso del Novecento, hanno voluto indagare il "miracolo" dal punto di vista linguistico, e hanno parlato della capacità dell'arte di spostare l'attenzione dal significato al significante, esaltando la qualità sensibile e più latamente fenomenica del messaggio, senza che questo, però, comporti la totale sospensione della dimensione semantica e referenziale del linguaggio e il conseguente occultamento dell'orizzonte mondano su cui, in ogni caso, esso si apre. Il riferimento, perciò, va non tanto a Jakobson e alla sua tesi sulla funzione poetica del linguaggio, quanto a Mukarovsky ed alle sue riflessioni non strettamente linguistiche, secondo le quali, concentrando l'attenzione sull'opera e isolandola dal contesto di esperienza in cui essa si presenta, si creano le condizioni perché possa costituirsi unitariamente come un tutto, un microcosmo che si rapporta solo nel suo insieme, e indirettamente, al "mondo della realtà".
Per questo motivo c'è sembrato giusto fin qui non tanto interrogarci sul significato puntuale di ciascuno degli elementi figurativi presenti nei dipinti di Orlando quanto cercare di comprendere certi aspetti costitutivi del suo mondo artistico e il senso complessivo che questo assume nell'orizzonte del nostro tempo presente. E' innegabile che il mondo del giovane artista napoletano si presenti con un tratto di "mostruosità" cui non è estranea l'aggressiva efficacia di un linguaggio pittorico dall'accento molto robusto e contrastato. Abbiamo già indugiato abbastanza sulla genesi psicologica ed esistenziale di questo mondo. Ora, in chiusura, ci preme sottolineare che in quel sentimento allarmato c'è l'intuizione di una realtà che riguarda tutti, poiché la "mostruosità" non è alla fine che la rivelazione della faccia negativa del possibile celata dietro l'apparenza dimessa di una normale quotidianità. Forse è stato sempre così, ma non c'è dubbio che oggi, come mai era accaduto in passato, la radicalità della follia distruttrice della cosiddetta civiltà dei consumi e dell'effimero, con il suo modello di sviluppo "incompatibile", mette a rischio le condizioni di sopravvivenza sul nostro pianeta e minaccia di estinzione non questo o quel popolo della terra, ma l'intero genere umano.
La pittura di Orlando sembra avvertire, nelle sue inflessioni più stravolte e dolenti, la pressione psicologica di questa minaccia che ci riguarda tutti. Con ciò non voglio dire che i suoi dipinti non conoscano i segni della speranza. C'è una lunga serie di tele, dal 1997 in avanti, in cui questi segni appaiono con forza crescente, dapprima come un incerto chiarore che annunci l'avvicinarsi dell'alba, poi esplodendo in un trionfo gioioso di colori e di luci. E' possibile cogliere i diversi momenti di questo percorso partendo da quell'affascinante "notturno" che s'intitola Morbido surreale del 1997, cui si può accostare, nello stesso anno, Figura 1, un quadro dalla partitura compositiva particolarmente equilibrata, dove però il colore s'anima nel ductus eccitato della pennellata e si accende, sulla destra, nel fuoco dei gialli e dei rossi. Segue un sereno intermezzo di composizioni dove intervengono spesso ordinate geometrie a sedare il tumulto dei colori o a contrappuntare, come in Mondosub del 2000, la fluttuante instabilità di paesaggi sottomarini. E, infine, Ricerca 3 e Furore astratto del 2001 celebrano il trionfo dell'esultante gestualità della pennellata, spinta dal desiderio di inventarsi uno spazio in cui poter effondere la gioiosa vitalità del colore: aperture, forse, su altri scenari di vita cui nessuno può chiederci di rinunciare.
Vitaliano Corbi